Cristina Acidini

Isole di pensiero.



Mi avevano incuriosito, non lo nascondo, certi aspetti del lavoro di Antonio Nunziante dedicato al Caravaggio nella recentissima mostra di Castel Sismondo a Rimini: la concentrazione su un solo dipinto del maestro lombardo, il San Francesco che riceve le stimmate del Wadsworth Atheneum di Hartford, Connecticut; il rapporto complesso tra l’artista e il capolavoro ispiratore, fatto di brani di copia «fedele» – che fedele poi non è – ma anche e soprattutto di estrazioni, reinvenzioni, alterazioni, esaltazioni in un instancabile esercizio combinatorio dentro e fuori dal quadro, smontando e rimontando, ingrandendo e trasformando i protagonisti e i connotati ambientali della lirica estasi notturna. Al virtuosismo che il Caravaggio aveva mutuato dal grande Raffaello, di convocare in uno stesso quadro tre fonti di luce- naturale (il riflesso lunare), artificiale (la fiamma), soprannaturale (il chiarore eburneo della figura angelica) – Nunziante ne aggiungeva del suo nelle tante varianti, ora inventando una stella cadente ad animare l’oscurità indistinta del cielo, ora suscitando un riflesso sanguigno di tramonto in alto a destra, a far da fondale a un albero di cui sorprende lo sviluppo scheletrico e gesticolante. Un avvicinamento, quello di Nunziante al Caravaggio, colmo di trepida intelligenza e di rispettosa inventiva: eppure anche sottilmente animoso, nel ripercorrere il medesimo soggetto attraverso il filtro della propria espressività e della propria tecnica, vale a dire senza rinunciare al disegno (e quindi in questo prendendo le distanze dal modello secentesco) e anzi rivelando di tela in tela la sua sapienza grafica, base della pittura tornita e cerebrale che gli conosciamo.

Con tanto maggior aspettativa ho accolto la notizia di questa mostra fiesolana, in cui Nunziante fa sua l’ulteriore sfida di esporre accanto a due sommi artisti, che a modo loro hanno segnato la pittura dell’Ottocento e del Novecento: Arnold Böcklin e Giorgio de Chirico, l’uno visionario nume tutelare di Fiesole, l’altro padre della Metafisica (che proprio a Firenze fu da lui concepita e generata un secolo fa), entrambi predecessori ideali di Nunziante che ha inteso, grazie al raffinato progetto espositivo di Giovanni Faccenda, importarne il magistero all’interno del proprio universo artistico e lì svilupparlo e continuarlo in una sorta di coltura in serra di un’essenza esotica ma adattabile.

Che l'arte dei nostri predecessori sprigioni la sua potenza ispiratrice nelle creazioni degli artisti d’oggi, è per me convinzione salda e consolatrice. Se così non fosse, troverei meno senso nell’aprire le porte dei musei, nell’organizzare le mostre, nel moltiplicare gli studi e le pubblicazioni: poiché la conoscenza, l’ammirazione, la stessa salvaguardia del retaggio del passato non sono fini a se stesse, bensì traggono la motivazione più alta e nobile dalla pur fragile promessa di futuro che esse in tal modo racchiudono e proteggono, come si racchiude e si protegge nel cavo della mano la fiammella d’una candela quando il vento notturno cerca brutalmente di spengerla. I quadri che Nunziante ha dipinto ripensando a Böcklin e rielaborandolo nei codici figurativi della metafisica dechirichiana sono rassicuranti in questo senso: quel messaggio colto ed arcano non si è perduto, ma, sussurrato da una voce diversa, sopravvive manifestandosi in stupefacenti metamorfosi.

Della sua pittura più nota, Nunziante serba il talento per gli interni nitidamente stereometrici, profilati di luci e ispessiti di ombre, dove ogni oggetto – un panno, un libro, una conchiglia, un quadro impacchettato visto da tergo – spande lente risonanze simboliche paragonabili ai silenziosi cerchi suscitati nell’acqua da un sasso. Qui la sua pittura esatta coniuga la Metafisica con l’Iperrealismo, caricandosi dell’antico potenziale illusionistico del trompe-l’oeil.

Al tempo stesso, nelle vedute di mari e campagne s’addensa ora una pittura sfrangiata, corrusca, terrosa nei paesaggi e torbida nelle nubi, con sbattimenti di luce che s’illividiscono o si affocano: una pittura in cui le memorie del Seicento, caravaggesco ma non soltanto, impreziosiscono le inquadrature oniriche con impasti cremosi e fili scintillanti.

In queste stanze e cieli in ingannevole rapporto, abitati da ombre, sono evocati talora i personaggi dei miti greco-romani, ripensati e riscritti per immagini. Certo, il loro ritorno – l’ennesimo – è investito da un ulteriore arricchimento simbolico per il solo fatto di transitare dal pennello di Nunziante, uomo del XX e del XXI secolo. Come nella novella paradossale dedicata da Jorge Luis Borges a Pierre Menard autore del Chisciotte (1939), dove lo scrittore immaginario si sobbarca l’impresa di riscrivere parola per parola il capolavoro di Cervantes diventandone lui l’autore, anche l’adesione letterale a un testo preesistente comporta un suo ispessimento concettuale, grazie allo stratificarsi dei secoli e degli eventi intercorsi tra l’originale e la riscrittura. «Il testo di Cervantes e quello di Menard sono verbalmente identici, ma il secondo è quasi infinitamente più ricco. (Più ambiguo diranno i suoi detrattori; ma l’ambiguità è una ricchezza)».

In questi ultimi quadri di Nunziante, al repertorio iconografico ereditato dall’Antico si coniuga un nuovo elemento mitologico, un’icona che vi si aggiunge con potenza e con dignità: l’Isola, estratta dal capolavoro di Böcklin e, con la consueta attitudine combinatoria, rimodellata, ridotta, rinnovata, svuotata, diversamente riempita dal nostro pittore. Restano i muri e le rocce, le acque e talora gli alberi. Eppure l’Isola si sta chiudendo in se stessa, si contrae in torre semidiruta, può perfino diventare minuscola in mano a Odisseo, pegno di nostalgia insulare, souvenir d’Itaca dolce e doloroso.

Una lunga feritoia fa filtrare luci impossibili nell’Isola-torre. L’acqua non la circonda lacustre o fluviale ma invece, sorgiva, scaturisce dal suo interno per spandersi sui gradini trasformati in cascatelle allagando gli interni vuoti, tracimando su piattaforme, inondando baie e scogliere. Gallerie d’alberi in prospettiva, all’interno dell’Isola-torre, invitano a passeggiate da brivido. Tutta l’impeccabile tecnica di Nunziante (è lui stesso che vediamo al lavoro, accovacciato su uno scoglio?) è messa al servizio di questi pensieri, pronti a sciogliersi in visioni, a evaporare in sogni, aggrumandosi e scomponendosi come nuvole in movimento, eppure bloccati nell’implacabile lucidità di una pittura che non lascia niente al caso.

Si può star certi che amicizie artistiche unilaterali e postume di questa portata apriranno altre strade, e che Nunziante le vorrà percorrere rinnovandosi ancora. Sarà un percorso di qualità e di fascino, che andrà ad arricchire la complessità dell’arte del terzo millennio.