Marco Goldin

Paesaggi della luce.



Giusto un anno fa, nel suo studio stretto tra le case, ringhiere del tempo affacciate sulle montagne che poco per volta si spargono della neve benedetta, Antonio Nunziante chiudeva un ciclo molto bello, dedicato all’interpretazione di un capolavoro giovanile di Caravaggio. Nell’ultimo quadro di quella serie, mentre cresceva mano a mano l’intensità e la commozione davanti al soggetto, umanissimo, il pittore sentì d’incanto la voglia di aprire, e spalancare quasi, il suo sguardo alla natura assoluta. Lui, artista di figure e di trafficati ingorghi di storia, di interni colpiti dalla dilavata muffa della leggenda, si pose libero dinnanzi al manifestarsi degli avvenimenti della luce. Parve a me, in quella circostanza, che Nunziante avesse fatto i suoi primi passi su una strada diversa, che sentiva con forza la vastità del paesaggio – un paesaggio certamente interpretato –, e quella natura facesse poi diventare intrico della coscienza luminosa. Il guardare verso il cielo chiaro, verso la radura da cui nascevano fiori attraversati da un lume. Tutto veniva modificandosi, fino a percepire l’istante preciso in cui il mondo si era formato, perché l’attenzione del pittore si rivolgeva proprio all’ora prima del mondo.

Da quel quadro, che mi colpì molto per la sua forza di novità e di annuncio, si può dire parta questa mostra. Che nei suoi esiti più alti, è certamente il traguardo migliore che Nunziante abbia fin qui toccato nella sua storia di artista. Mostra che è in ogni modo dedicata al dilagare della luce nel mondo, alla sua essenza, al suo essere distesa imprendibile. E concrezione in anfratti e rocce, in nuvole e discese di montagne, in golfi e cascate, in lune e stelle, in boschi e fiorite ninfee. Le stanze si sono aperte, le porte divelte dai catenacci, le finestre non servono più. I passi si fanno in quel mondo e la luce è di una presentazione senza fine, di un disporsi all’ascolto e all’annuncio. Si ascoltano il sole e la luna, il loro clangore muto, i passi che nel cielo fanno. Notti piene di stelle, apparizioni e incanti, profumi e silenzi, scie che si perpetuano nel buio e segnano un orientamento, moli a cui attraccare dentro il nero che talvolta non risponde, sordo.

Nunziante ha creato in questo modo uno spazio nuovo per la pittura. Non si accontenta di descrivere la natura ma la inventa, la plasma soffiandole dentro lo spirito della vita. Con le sue luci spazzolate e tutte a circonfondere l’aria, fortissimamente vuole dare in immagine l’ora del principio del mondo, quel tempo edenico che ha visto l’uomo camminare per la prima volta sulla terra. Spirito romantico che sia, vicino talvolta all’idea di Turner o di Friedrich, esso si incarna e s’incista nel groviglio delle iniziali essenze, degli aurorali splendori. La pittura cerca di dare figura a un paradiso terrestre fatto solo di luce, nel quale però si sente l’elemento primitivo e ancestrale. E’ facendo così che Nunziante conduce i suoi passi in quel luogo dove si sommano l’educazione dei gesti, la sapienza della pittura e la potenza della creazione.

Il dato romantico, per come lo intende questo pittore, è la sovrapposizione tra immenso della natura, non ancora diventata paesaggio, e immenso dell’anima. Lungo questo tragitto, nelle sue risonanze e rifrazioni, si compie il destino dell’immagine. Che quindi in Nunziante non è la meta raggiunta, quanto piuttosto il viaggio dello spirito da un luogo all’altro e pittura si fa con l’adesione della luce al mondo incontrato. Questo il grande mutamento che si scopre qui, adesso: alla stasi entro i limiti di una stanza, alla precisione del racconto si sostituisce la gloria senza fine del movimento costante, circolare e ugualmente discendente e ascendente. La luce sopra una grande montagna dei primordi del tempo, è la prima visione che l’occhio dell’uomo ha avuto nel momento in cui ha consapevolmente scoperto di essere abitante della terra. Per questo i quadri più belli di Nunziante sono dallo stupore incantato di chi si presenta su una soglia, e guardando ammira il creato non ancora modificato dall’azione delle moltitudini.

Si sente in questi quadri la densità di un fatto epico, che non ha più nulla del gioco, più nulla dell’esatta disposizione degli oggetti su un piano. Non più quella quasi metafisica levigatezza di ambienti e volumi. Il cambiamento non è irrilevante e si osserva questa nuova pittura come un vero fatto dello spirito misterioso e segreto. Dove il silenzio agisce non come un orpello ma come l’esatta sostanza dello stupore davanti all’immenso. E non è un caso se figure solitarie si incamminino, in alcune opere di grande suggestione, entro i confini dilatati di una natura che è dello sguardo e dell’anima insieme. Figure che come quelle di Friedrich due secoli prima, volgono a noi le spalle e sentono il crescere di una luna, il sollevarsi di stelle nell’aria notturna, il galleggiare di nebbie. Sentono tutta l’immensità della terra, che da ogni parte preme, come una piuma. E se pur si disegnano strade, si scorge il mare lontano, si resta fissi dentro tutta quella vastità che attorno si avverte circolare, imprimersi. Grumi di nuvole si abbassano verso l’acqua profonda e segnano quasi esse stesse la linea netta dell’orizzonte. Nunziante fa pittura del terrore e della meraviglia, coglie in pieno il sentimento romantico che chiama da antiche residenze, da lontane latitudini.

Ed è per dar voce a questa istanza del tempo remoto che egli muove talvolta materie adesso quasi astratte, in una sorta di sprofondamento romantico dentro la luce al suo stato puro e assoluto. Ma ciò che più colpisce è il rovesciamento di questa luce nei territori della coscienza. La natura così descritta diventa autoritratto e più ancora immagine di un sé che trascolora nei lumi, assumendone le sembianze. Una figura è un piccolo punto nel mondo, è essa stessa luogo e sostanza, memoria e sogno, presenza e assenza. Da questa azione del doppio la pittura di Nunziante esce irrobustita. E ci si interroga sempre, mentre si scrive, su come il pittore abbia potuto concepire questa arditezza di spazi, questa inesauribile calibratura di colline e montagne, di cieli e nuvole, di mari specchianti. Perché d’un tratto, e quasi per un miracolo, egli ha abbandonato la stanza dei giochi e si è messo in faccia alla natura eterna, interrogandola. Da questa significazione muta, egli ha tratto il motivo per alcune opere che tornano all’ora inaugurale dell’universo e ha così dipinto, con il giusto timore che si deve all’assoluto, il mondo in una sua prima immagine.

Non sarà inutile ricordare come il quadro che ha dato il via a questa serie, sia l’immagine, poi riproposta, di un uomo, immaginiamo il pittore, che con un filo teso aggancia una barca al mondo perché non voli via. O forse invece, stia lì nell’atto di liberare verso il cielo quel veliero dalla vela candida, che non naviga sul mare ma prende il largo dentro le strade del cielo. Dentro tempeste e nembi, apparizioni di sole e piogge. Quest’uomo, in immagini tutte fortemente poetiche, conduce il suo cammino tra coste sabbiose e montagne, tra promontori e lagune. Lo conduce sempre traendo con sé quel filo che dall’altra parte ha una barca che mai completamente si vede. E nel dire l’altra parte, noi sentiamo, noi sappiamo, che è un al di là non soltanto di luoghi che si flettono oltre la calotta dell’orizzonte, ma è un al di là del tempo. Nella somma di ciò che siamo stati, siamo e saremo. Questa barca che non parte e che segue docile il pittore che cammina nel mondo, è lo scrigno in cui tutto è custodito, la conoscenza del mondo, di sé e delle cose.

Dentro a questi cieli turneriani, del grigio e dell’azzurro attraversati da venti e bufere, si muove la resistenza del tempo e delle stagioni, delle luci e dei suoi sconvolgimenti. E noi sentiamo che una pittura condotta fino allo spasimo in questo modo, è dalla volontà di farsi, incandescente, sillaba del principio e della fine. Distanza che si coniuga nella prossimità. Ha fatto, Nunziante, una lunga strada per arrivare fin qui. Per porsi davanti a luoghi che sono il tutto e il nulla, l’essere e la sua scomparsa, sono il passato e il presente. Il pittore si fa demiurgo, costruisce il mondo con il suo pensiero, lo plasma, lo porta alla luce, lascia che non si inabissi. Eppure, talvolta segue quel mondo negli abissi e allora lo racconta attraverso una luce che scava la terra.

Ma come per un bisogno di rifiatare, di incontrare più dolci e umane misure, lascia quelle vastità preistoriche, temporalesche e irte di spine di nuvole, per incontrare la luce nella sua pienezza e nella sua distensione di un grande spazio che si apre al mare. Sono allora quadri anche di ampia dimensione, affinché il largo della tela corrisponda quasi al largo di una musica. Soprattutto alla vastità della natura. Gialli campi di grano che in una scia di terra e di luce conducono verso il mare, il blu intenso schiacciato e protetto dalla vela del cielo lattiginoso. Solo vuoto e silenzio, solo luce e rifrazione della luce. Nunziante sceglie di essere infine pittore in questo modo. Colui che annuncia il luogo nel quale tutti i prodigi possano accadere. La pittura torna al suo primo istinto di rappresentazione, come nelle grotte di Lascaux. Immagini che venivano graffiate sui muri per allontanare il pericolo, rappresentandolo. Immagini che anche adesso vengono dalla notte dei tempi e sono trasformate nel segno di una bellezza immutabile, che lega il prima e il dopo dell’esistenza. Lega, con quel filo congiunto a una barca, la terra al cielo, lo strazio alla gioia, la contemplazione al racconto. E’ così che la pittura fa del transitorio ciò che è da sempre, fa dell’apparizione che svanisce la costanza e la sedimentazione delle ere.