Per la storia artistica del Novecento italiano fondamentale è stata la mostra fiorentina del 1922. Si intitolava Pittura italiana del Seicento e del Settecento. Il curatore Ugo Ojetti coadiuvato da una squadra di commissari scelti fra gli storici dell’arte più autorevoli e più brillanti dell’epoca da Wilhelm von Bode a Hermann Voss, da Lionello Venturi a Roberto Longhi, raccolse in 48 sale di Palazzo Pitti più di mille capolavori. Da Bernardo Strozzi a Domenico Fetti, da Annibale Carracci a Guido Reni, attraverso Gentileschi e Mattia Preti, Cavallino e Ruoppolo, fino a Canaletto a Guardi a Tiepolo. Nessun manuale di storia dell’arte ha mai saputo offrire in riproduzione quello che nel ’22, a Pitti, era affidato a opere vere.
Il fuoco espositivo e critico dell’evento era «l’immortale Caravaggio… maestro assoluto di tutto il Settecento» (A. Maraini, 1922). Praticamente l’intero corpus di Caravaggio all’epoca conosciuto era raccolto a Palazzo Pitti, anche le tele di San Luigi dei Francesi e di Santa Maria del Popolo.
La titanica impresa del 1922 voleva dimostrare che nel Seicento classico e naturalista stanno le radici della Modernità. Quello che Longhi e Ojetti, Matteo Marangoni e Lionello Venturi proclamavano sulle riviste (in Dedalo, su L’Arte, su Valori plastici), i pittori lo accolsero con entusiasmo e lo testimoniarono nelle loro opere. Così Felice Carena quando dipinge nel ’26 gli Apostoli ora alla Galleria d’Arte moderna di Firenze, appoggiandosi alla tela di analogo soggetto di Caravaggio già nei Musei Statali di Berlino. Così de Chirico quando inventa sontuose nature morte barocche che sono citazioni testuali da Giuseppe Recco. Così Giannino Marchig ed Efisio Oppo, Achille Funi e Baccio Maria Bacci, Sciltian e Primo Conti.
Il Seicento ha sedotto il Novecento come ha dimostrato una mostra bella e importante chiusa di recente alla Villa Bardini di Firenze. Gli artisti italiani del XX secolo hanno capito che il secolo di Caravaggio e di Guercino, di Poussin e di Gentileschi è il nostro tempo, è già la modernità. Caravaggio aveva insegnato che tutto l’universo visibile svelato dalla luce può essere rappresentato, che non ci sono limiti né gerarchie di valori alla mimesi del Vero perché tanta manifattura è fare un quadro buono di fiori come di figure. È la grande galileiana rivoluzione che sta alla base della storia artistica moderna.
È anche il secolo, il Seicento, che con Shakespeare, con Cervantes, con Racine rende visibili gli abissi dell’animo umano; che con i grandi mistici (Teresa d’Avila, Giovanni della Croce) sperimenta il silenzio di Dio e si immerge negli abissi vertiginosi della visione ulteriore. È il secolo che, nelle arti figurative come nel teatro, fa diventare protagonista della rappresentazione l’universo delle passioni, dei sentimenti, degli affetti. Tutto questo per dire che il Seicento naturalista e barocco è già la Modernità. Così lo avvertirono e lo testimoniarono gli artisti e i critici del secolo scorso. Ma la Modernità – insegnò a tutti Giorgio de Chirico in Arte Metafisica, 1918 – riposa sul vasto silenzioso enigma disteso su tutta la terra.
Ed eccoci alla pittura del metafisico (e caravaggesco) Antonio Nunziante. Parliamo di un pittore cinquantenne che si è formato a Torino e a Firenze, che ha girato il mondo, che ha esposto in Italia e in Europa, in Giappone e in America, guadagnando vasta notorietà e successi di pubblico, di critica e di mercato. Parliamo di un uomo colto che ha letto i libri e frequentato i musei. Parliamo infine di un tecnico eccellente, di un artigiano che conosce come pochi ai nostri giorni le virtù dei colori, i mestieri e i saperi necessari per fare pittura ad olio buona come quella dei maestri del passato.
Antonio Nunziante con questo tipo di cultura e di formazione, usa la lingua del passato, quella di Caravaggio e di Böcklin, del Naturalismo, del Barocco, del Simbolismo. È la lingua che gli hanno consegnato le accademie, i libri, i musei, che ha approfondito, sperimentato, perfezionato nel suo lavoro fino a farla propria, fino a padroneggiarla come una lingua madre, fino a trasformarla nel suo modus operandi. Allo stesso modo io, per scrivere queste righe, uso la lingua che è stata costruita da Petrarca, da Bembo, da Manzoni.
Il confronto potrà sembrare azzardato e improprio. Lo è in effetti. Può essere utile tuttavia se serve a dare immagine a un concetto. Voglio dire con questo che un artista dei nostri giorni può usare forme, iconografie, modi espressivi del passato (di un passato che come quello caravaggesco brucia di flagrante Modernità) per testimoniare idee e sensibilità del suo e del nostro tempo. È un percorso difficile ed estremamente pericoloso in bilico sull’insidia sempre incombente dell’intellettualismo sterile, del citazionismo fine a sé stesso. È un percorso che Antonio Nunziante ha saputo affrontare con coraggio e con intelligenza. E con esisti di suggestiva efficacia.
Prendiamo il dipinto che si intitola Verità celata olio su tela di cm. 60×70. Siamo in uno spazio chiuso, spoglio, deserto che riceve luce da una finestra sulla sinistra. Forse è l’atelier del pittore, forse è un incognito non-luogo che esiste solo per ospitare il quadro appeso alla parete. È lui, il quadro per ora invisibile, la verità celata. Lo copre un drappo di tela grezza, consumata, sgualcita e tuttavia di una evidenza tattile inquietante. La tela, unica protagonista di una scena che esclude ogni presenza umana, esercita sul riguardante una specie di ipnotica attrazione. Si vorrebbe toccarla, sollevarne il lembo e la verità verrebbe svelata. È vera come il sudario che accoglie il corpo di Cristo nella Deposizione vaticana, come il panno che cavalca il giovane teppista nell’Omnia vincit Amor di Berlino. Mentre la luce sporca che entra dalla finestra è in tutto simile a quella che attraversa le impannate della taverna romana che ospita la Chiamata di Matteo nel San Luigi dei Francesi.
L’ambiente (scuro profondo e lividi chiari come nella Decollazione di Malta) il brutale splendore del vero svelato dalla luce, sono un omaggio a Caravaggio, ma la verità celata è un enigma offerto alla decifrazione delle donne e degli uomini dei nostri giorni. Quella tela che nasconde un quadro invisibile, allude a una dimensione dell’esperienza che sta fuori o sopra le nostre facoltà sensoriali e razionali. Questo vuole dirci il metafisico Antonio Nunziante.
Un ambiente in tutto simile a quello prima descritto ospita, ancora una volta, il quadro celato. In questo caso il dipinto già imballato in un approssimativo involucro di plastica, è appoggiato contro il muro. Anche qui ambiente spoglio, desolato, nessuna presenza umana, una luce da prigione. Ma perché questo olio su tela di Nunziante (cm. 60×70) è stato intitolato Prometeo? C’è una macchia rossa sul pavimento proprio di fronte al quadro che non ci è dato di vedere. Sono tracce di colore che il pittore, lasciando lo studio in attesa che qualcuno venga a ritirare il dipinto, si è dimenticato di pulire? Sul grigio-bruno della parete di fondo si stampa un quadrato di luce chiara. Viene da una finestra o da una porta aperta sul lato invisibile della stanza, quello che sta alle nostre spalle. Al centro di quel quadrato c’è una traccia circolare di azzurro. Un sottile insieme di allusioni e di presagi governa questa composizione di Nunziante. Siamo nel Vero e allo stesso tempo possiamo presagire e antivedere l’al di là del Vero. Ci affacciamo su quella ambigua linea di confine che sta fra l’atelier dell’artista e un incognito inesplorato altrove.
Antonio Nunziante è convinto che il punto più alto per entrare in ciò che sta sopra di noi e dunque nella dimensione del linguaggio artistico che chiamiamo metafisico, sia la pittura della realtà. Da lì, come da un avamposto, si può scrutare l’universo dei segni, degli enigmi, dei presagi. Di questa convinzione ci ha dato un esempio quasi didascalico, vero e proprio manifesto della sua poetica, in una grande bellissima tela (cm. 150×200) nella quale immagina l’incursione di Caravaggio nel suo studio. Entriamo nell’atelier dell’artista, vasto stanzone deserto. A sinistra c’è il cavalletto con i pennelli e i colori, a destra una fuga prospettica di stanze vuote. Il fascio di luce che entra dalla finestra ad aprire il grigio plumbeo e le ombre scure dell’ambiente, inquadra, con effetto di trompe l’oeil, un dettaglio del San Francesco in estasi di Hartford. Una tela entra nella tela, occupa lo studio dell’artista. Il San Francesco di Hartford (oggetto di altre interpretazioni deduzioni e varianti nel catalogo del pittore) è una presenza inquietante e tuttavia fatale. Quasi che Nunziante volesse dirci che quella è la sua primaria irrinunciabile fonte di suggestione. Omaggio più efficace alla modernità e anzi alla contemporaneità di Caravaggio (concetto caro alla sensibilità critica di oggi) è difficile immaginarlo. Ci sono dipinti di Antonio Nunziante che vogliono dimostrarci la permeabilità forse la inesistenza del confine che divide la realtà dal sogno, la cosa dal suo simbolo, lo scorrere del Tempo dalla sospensione del Tempo. Il dipinto che si intitola Attesa (cm. 50×100) è in questo senso esemplare. Un oggetto alto e stretto, di dimensioni e di figura vagamente antropomorfe, sta contro la parete di un ambiente deserto. Lo copre una pesante tela bianca che asseconda senza svelarla l’immagine tridimensionale della cosa. Che potrebbe essere un’opera d’arte, una scultura per esempio, oppure un arredo, un mobile, una macchina. La cosa aspetta. È una attesa che forse è iniziata da poco ma potrebbe durare per una sequela infinita di ore e di giorni.
Come se operasse dentro una bolla di tempo immobile, il pittore si fa specchio lento implacabile del vero: le assicelle del pavimento a parquet, il grigio piombo della parete interrotto dal nero delle ombre, ogni piega della tela che copre l’oggetto, la luce che spiove dai vetri, le punte dei böckliniani cipressi che svettano dietro i vetri. La scena che il pittore descrive è assolutamente vera ed anche verosimile. In un ambiente coperto che potrebbe essere una officina o un garage, una cosa, opportunamente coperta, aspetta di essere portata via. Eppure cosa c’è di più onirico di questo quadro? Il sogno può essere vero come la realtà. Quello che chiamiamo realtà forse non è altro che sogno. Sono i fondamenti della poetica di Nunziante in questo quadro espressi con splendida evidenza. Laggiù dove tutto è possibile si intitola una delle opere più belle del pittore (cm. 100×100). Il luogo che il pittore si è scelto per sperimentare la pura felicità sta di fronte all’Isola dei morti di Böcklin, sulle rive di un mare che è quello del mito inventato da de Chirico.
C’è il piacere di evocare le radici culturali e poetiche della sua arte e c’è il piacere del pittore che, seduto in primo piano in atto di disegnare, minuscola figura contro l’incombere dei faraglioni, racconta il miracolo di un cielo tumultuoso e delle rocce che il suo occhio accarezza con prodigiosa capacità di adesione al dato di natura. C’è, infine, carattere distintivo di tutta l’opera di Nunziante, lo splendore del Vero nell’enigma del luogo e dell’ora.